La Cabala Napoletana. L’oscuro monopolio dell’arte dei pittori napoletani

Arte e Cultura
Articolo di , 30 Gen 2019
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La Cabala Napoletana è stata un’associazione di pittori napoletani a sfondo criminale che imponeva un preciso uso stilistico e pittorico da adottare a Napoli. Gli artisti stranieri, furono vittime di feroci agguati, complotti e minacce nel corso del Seicento.

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«La Cabala Napoletana» è stata per certi versi la Gomorra del XVII secolo che monopolizzò l’arte a Napoli, ostacolando le committenze artistiche ai pittori stranieri a favore dei pittori locali.

 

Quando si parla di arte è pensiero comune pensare alla bellezza di un dipinto, al soggetto rappresentato, al significato dell’opera o alla biografia dell’artista; è insolito pensare a cosa c’è dietro l’esecuzione di quel lavoro, quali storie e quali personaggi hanno caratterizzato o influenzato quel gusto, quell’idea, specialmente se sono mosse da oscuri sentimenti.

 

E’ il caso de «La Cabala Napoletana» l’associazione artistica sorta segretamente a Napoli, con a capo tre celebri esponenti della pittura del Seicento: lo spagnolo Jusepe De Ribera detto «Lo Spagnoletto» il greco Belisario Corenzio e il suo allievo Battistello Caracciolo. I tre «cospiratori» condividevano l’influenza drammatica esercitata dai dipinti di Caravaggio che anni prima, nel 1606 e nel 1609 rimase a lavorare a Napoli producendo delle opere straordinarie.

 

Lo scopo di questa associazione a sfondo criminale, fu quello di gestire dall’interno (e non tanto segretamente) le maggiori committenze artistiche locali, a favore dei pittori napoletani; l’intento fu quello di ostacolare se non addirittura vietare a suon di minacce, l’affidamento delle opere artistiche ai pittori non residenti e in particolar modo ai fuori regione «i forestieri» considerati interpreti del nuovo gusto stilistico: il Barocco. A pagarne le dure conseguenze furono i pittori appartenenti alla scuola bolognese, tra cui; Guido Reni, Domenico Zampieri, Giovanni Lanfranco e Francesco Gessi, costretti a fuggire da Napoli.

 

Il risentimento violento de «La Cabala» si inasprì fortemente quando furono commissionati ai «forastieri» gli affreschi per adornare la Cappella del Tesoro di San Gennaro databili dal 1631 al 1643, il luogo di culto più importante e prezioso di Napoli che custodisce le spoglie del Santo Patrono. Per gli artisti napoletani, non ricevere un tale impiego di prestigio che avrebbe esercitato un guadagno considerevole, fu visto come un vero e proprio affronto.

 

Il confine tra storia e leggende sulle complicate vicende che riguardarono la decorazione degli affreschi della cappella, divenne sottile e violento: secondo voci interne, la Deputazione (l’istituzione secolare che custodisce il tesoro e le reliquie di San Gennaro) aveva stabilito che a eseguire gli affreschi e i dipinti dovevano essere pittori non napoletani; in primis per evitare spiacevoli rivalità fra gli artisti partenopei di notevole calibro e in secondo luogo per accaparrarsi il meglio dei talenti italiani. Fu questa scelta, l’inizio di una lunga serie di eventi drammatici messi in atto dai pittori napoletani contro i forastieri: si innescarono atti persecutivi nei confronti dei pittori italiani con l’invio di lettere intimidatorie, seguite da minacce verbali e fisiche, fino a giungere all’improvvisa morte o fuga dell’artista. In sintesi, per un pittore di una certa fama, lavorare a Napoli nel Seicento, non doveva essere facile: ciò significava esporre a rischio la propria vita, vedere sfregiato il proprio lavoro e deriso del proprio talento in pubblico, subendo umiliazioni e soprusi di ogni genere.

 

Al centro della rete minacciosa della Cabala Napoletana vi caddero i pittori bolognesi, di cui ci sono giunti alcuni aneddoti preoccupanti: si racconta che il primo a ricevere l’incarico fu il celebre Guido Reni molto apprezzato per il suo classicismo lirico alla ricerca della bellezza ideale; il pittore già di natura timorosa al pensiero di lavorare su Napoli si mise in apprensione e quando un giorno vide rientrare in casa il suo assistente accoltellato, fuggì immediatamente dalla città, lasciando ai committenti una lettera carica di scuse.
Al suo posto fu chiamato Francesco Gessi, allievo talentuoso della bottega di Guido Reni che inizialmente ignorò le raccomandazioni del maestro sul clima aspro che infervorava l’animo dei pittori napoletani.
Giunto in città fu subito oggetto di pedinamenti, di lettere anonime speditegli a casa e minacce collaterali con l’intento di spaventarlo. La paura subentrò quando non vide più rientrare due suoi allievi in bottega e si disse che vennero dati per dispersi, forse rapiti e allontanati. Iniziarono le ricerche dei due giovani ma senza speranze di ritrovarli e preso dal timore, il povero Gessi abbandonò città e lavoro incompiuto.

 

Fu invitato a prender parte alla decorazione della cappella di San Gennaro, il Domenichino ovvero Domenico Zampieri che informato dai colleghi bolognesi sui pericoli e le ostilità sul lavoro, fu sul passo di rifiutare, sollecitato anche dalla moglie. Tra una serie di minacce, fughe dalla città e l’ala protettiva della Deputazione, il Domenichino riuscì ad affrescare buona parte del ciclo pittorico che descrive in magnificenza la Gloria di San Gennaro.
A seguito dell’ennesima minaccia de La Cabala sul capo del pittore, il pover’uomo fuggi alla volta di Roma senza avvertire né moglie né figlia. La sua fuga improvvisa fu letta dal viceré di Napoli come una grave offesa e per tale ragione, furono fatte prigioniere la moglie e la figlia; le due donne furono messe in libertà dopo un anno, solo quando il pittore, a seguito di rimorsi e pentimenti, decise di far rientro a Napoli.

 

Lavorò nuovamente agli affreschi e completò l’opera tra i consensi graditi del popolo ma senza risparmiarsi minacce, umiliazioni e insofferenze. Rincuorato dai gradimenti riscossi, il giorno 6 aprile del 1641 mentre stava iniziando un nuovo affresco, improvvisamente muore. Quella morte misteriosa, nonostante il suo fisico fosse estremamente provato, venne letta come una morte d’avvelenamento e ancora oggi non si esclude questa pista.
Il suo sacrificio da vero martire, ha reso alla Cappella del Tesoro di San Gennaro e a Napoli, uno straordinario ciclo di affreschi dei più belli in città, così vibrante di luce e gloriosi nella potenza espressiva.

 

L’ultimo pittore oggetto di minacce de La Cabala, fu Giovanni Lanfranco che riuscì a terminare la cupola della cappella, in un vortice di santi e beati al Paradiso.
Tra i napoletani che presero parte all’esecuzione dei lavori per la Cappella del Tesoro di San Gennaro si menzionano i pittori: Massimo Stanzione, Luca Giordano e l’oscuro Spagnoletto Jusepe De Ribera, un rivale molto scomodo e per certi versi, sinistro.
Per chi desidera approfondire la pittura napoletana del Seicento è in corso la mostra «La collezione di un principe» a Palazzo Zevallos Stigliano che ripercorre gli eventi storici del XVII secolo attraverso la lente dell’arte.

 

Fonti consultate: www.nuovomonitorenapoletano.it
Bibliografia: La Real Cappella del Tesoro di San Gennaro di Paolo Jorio e Franco Recatatesi

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Una risposta a “La Cabala Napoletana. L’oscuro monopolio dell’arte dei pittori napoletani”

  1. PIERA ha detto:

    l’universo pittorico partenopeo è, e sarà sempre, teatro di ricatti e ambiguità; se non altro per il suo prevalere sulla popolazione, a quell’epoca ignorante e superstiziosa . I pittori erano e sono tutt’oggi rivali e astiosi; dove esiste commercio ed interessi venali, prevalgono forme e non tanto
    velate, di competizione che, come tutte le dispute umane, travalicano persino e a volte gli autentici interessi dei locali committenti . E’ necessario allargare i confini di ogni operazione per evitare, conflitti nazionalistici che risultano poi dannosi e ricalcano comportamenti d’esclusivo monopolio .

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