Petrosinella, la prima “fanciulla della torre” dai capelli lunghissimi è la protagonista di una fiaba napoletana
Protagonista di una fiaba di Giovan Battista Basile, Petrosinella è la tipica “fanciulla della torre”, una Raperonzolo di penna nostrana che, con furbizia e istinto, sconfigge l’orca per tornare libera.
Padre del modello narrativo della fiaba è lo scrittore napoletano Giovan Battista Basile, autore de “Lo cunto de li cunti”, un’opera che ha dato il via al genere e a cui si sono poi ispirati fiabisti d’autore come H.C. Andersen, C. Perrault e, soprattutto, i fratelli Grimm, trasformando, riadattando e riprendendo i personaggi di Basile per le storie di “Cenerentola”, “Il gatto con gli stivali”, “La bella addormentata nel bosco”, “Hansel e Gretel”, “Pollicino”, “Rapunzel” e così via.
E proprio di Rapunzel, Petrosinella è l’antenata. Appartenente al filone narrativo della “fanciulla della torre”, la prima Raperonzolo nasce dalla penna di Basile, in epoca barocca, e nasce all’interno di un’opera redatta in lingua napoletana che porta il titolo di “Lo cunto de li cunti”, cioè “lo trattenemiento de peccerille” (l’intrattenimento per i bambini, il raccontare loro delle fiabe).
Le Quattro Giornate, quando Napoli si ribellò dando inizio alla ResistenzaPubblicato postumo per mano della sorella, la famosa cantante Adriana Basile, questa prima raccolta nazionale di fiabe si diffonde solo successivamente a macchia d’olio, impregnandosi in tutto il tessuto culturale europeo, fino ad arrivare a noi e nei libri di fiabe che ci hanno cresciuti.
Petrosinella: il ciuffo di prezzemolo, la torre e le tre ghiande
C’era una volta (come iniziare se no?) una donna, Pescadozia, che vide dalla finestra un’aiuola di prezzemolo e non poté resistere all’impulso di strappare un fascio, stando però attenta a non farsi scoprire dalla proprietaria di quel terreno, che era proprio un’orca. L’orca però intuì che vi erano fasci mancanti nel suo prezzemolo, così scoprì la donna che, intanto, era ritornata di nascosto. Quella allora, colta sul fatto, tentò subito di giustificarsi perché incinta.
Non convinta l’orca decise di lasciar andare la ladra solo in cambio della creatura che Pescadozia portava in grembo. Così Petrosinella nacque, e fu chiamata in questo modo perché venne al mondo con un ciuffo di prezzemolo sul petto: era “na figliola cossì bella, ch’era na gioia”. Aveva sette anni quando Petrosinella incontrò l’orca, mentre si dirigeva dalla maestra, e così la incrociò varie volte e, tutte le volte, l’orca diceva alla bambina di ricordare a sua madre Pescadozia della promessa che era stata fatta in passato tra le due.
Stufa di ascoltare la richiesta che l’orca le ricordava insistentemente tramite la bambina, la madre disse a Petrosinella che alla prossima rivendicazione dell’orca lei avrebbe dovuto rispondere così: “Prenditela!”. E successe proprio questo. L’orca afferrò Petrosinella per i capelli e la portò in un bosco così fitto che i raggi del sole non oltrepassavano gli alberi. Qui fece sorgere, con la magia, una torre molto alta, senza porte, senza scale, con una sola piccola finestra e nella stanza in alto rinchiuse la fanciulla.
Solo l’orca poteva salire e scendere dalla torre e lo faceva servendosi dei capelli lunghissimi di Petrosinella. Ma un giorno, mentre la padrona non c’era, passò il figlio di un principe per quel bosco e vide la ragazza sulla torre innamorandosene all’istante. Ma i due giovani volevano conoscersi, perciò Petrosinella escogitò un piano che prevedeva che il giovane salisse di notte sulla torre, mentre all’orca veniva dato un sonnifero perché non si accorgesse di nulla.
Una comare dell’orca, però, notò gli incontri dei due giovani e andò ad avvisarla, anche se l’orca non si preoccupò più di tanto perché aveva fatto un incantesimo alla ragazza: sarebbe stato possibile per lei scendere da quella torre solo se avesse trovato tre ghiande nascoste nella trave della cucina e, solo con quelle in mano, avrebbe potuto così liberarsi.
Mentre la comare spifferava tutto, però, Petrosinella era proprio lì ad origliare e perciò diede indicazioni al figlio del principe su dove trovare quelle ghiande. Scesero quindi dalla torre con una scala di spago e incominciarono a fuggire verso la città, ma la comare li vide e si mise ad urlare in modo da allertare l’orca. Questa scese perciò dalla stessa scala e li rincorse.
Petrosinella istintivamente lanciò per terra una delle ghiande che aveva e da essa fuoriuscì un cane che si mise a minacciare l’orca; questa però tirò fuori dalla tasca una pagnotta e così placò l’animale, riprendendo a rincorrere gli innamorati. Quando Petrosinella se ne accorse, lanciò la seconda ghianda dalla quale fuoriuscì un leone dalla folta criniera, pronto a inghiottire l’orca.
La furbizia dell’orca, però, la fece reagire scorticando la pelle di un asino nelle vicinanze, che si mise poi addosso per spaventare il leone (perché secondo antiche leggende i leoni hanno paura del canto degli asini). L’orca, per precauzione, rimase con la pelle dell’asino addosso e riprese l’inseguimento quando, dalla terza ghianda, fuoriuscì un lupo che se la inghiottì, pensando che fosse un vero asino.
Le fiabe antiche come strumento per tornare liberi, per scendere dalla torre
Sconfitta l’orca, Petrosinella e il suo giovane principe, finalmente liberi, arrivano nel regno del figlio del principe e lì si sposano. Ma il punto è questo? Certo che no.
Lo cunto de li cunti, un librone di 50 fiabe
Conosciuto anche come “Pentamerone” perché la sua narrazione è – come nel “Decamerone” di Giovanni Boccaccio – suddivisa in giornate, “Lo cunto de li cunti” (prima edizione: 1634) è un librone di 50 fiabe (tra cui, appunto, “Petrosinella”) tutte di origine popolare. Ambientate nei castelli e nei boschi della Basilicata, e nate per far divertire la corte, le storie del “Pentamerone” sono di impostazione teatrale e rituale, e contengono una serie di artifici narrativi che Basile utilizza per rendere vivace la narrazione.
“Lo cunto de li cunti” è – ribadiamolo – la prima raccolta nazionale di fiabe, una raccolta che si discosta dai racconti che ha poi ispirato successivamente (e che tutti conosciamo) per il marcato temperamento delle protagoniste. Le chiama “le eroine di Giambattista”, lo scrittore Bompiani Nicholas Jabber: “contestatrici, furbe, soggiogatrici, urlatrici, interruttrici – e non, invece, le bambole di carta più tardi uscite dalla penna di autori quali Charles Perrault e i fratelli Grimm” (“I raccontastorie”).
Queste storie, nate in lingua napoletana, mettono in scena – infatti – i temi importanti, quelli atavici, che esistono da sempre e nascono, ogni volta, quando c’è la giovinezza: il desiderio di libertà, con tutti i pericoli che comporta il mettere piede fuori dal nido e dalle solite dinamiche opprimenti e patriarcali.
E, per avvicinarsi e comprendere profondamente questi temi, non può esistere strumento migliore delle storie. Più ancestrali esse sono, più arrivano all’anima, o meglio, a risvegliare la sua memoria. Ed è per questo motivo che le fiabe antiche devono essere offerte a tutte le bambine e a tutti i bambini: per dare loro la possibilità di iniziare sempre un nuovo viaggio dentro di sé, magico, incredibile, un viaggio che risvegli la fiducia.
Raccontiamo – perciò – più fiabe alle nostre bambine e ai nostri bambini, raccontiamole anche a quei bambini che sopravvivono in noi adulti. Perché la fiamma della fiducia si alimenti; per essere libere e liberi, sempre, da grandi e da piccoli; per trovare ogni volta il modo di scendere da quella torre senza scale, che chissà da quando ci tiene imprigionati, fino a farci quasi abituare.