Social World Film Festival, Marco D’Amore: “La mia esperienza alla regia”

Marco D'Amore ha ricevuto il premio alla carriera durante la dodicesima edizione del Social World Film Festival. L'attore, regista e sceneggiatore napoletano si è raccontato a cuore aperto e ha parlato della sua esperienza sui set.

Arte e Cultura
Articolo di , 12 Lug 2022
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Foto dal profilo Facebook ufficiale della manifestazione

Il regista, attore e sceneggiatore napoletano Marco D’Amore ha ricevuto il premio alla carriera “Golden Spike Award” durante la dodicesima edizione del Social World Film Festival, kermesse che ha annualmente luogo nella città di Vico Equense. Presso l’arena Fellini allestita nel complesso SS. Trinità e Paradiso è stato proiettato il suo film “L’immortale” e, di seguito, D’Amore durante il salotto cinematografico condotto dalla presentatrice Roberta Scardola presso l’arena Loren, situata presso il piazzale Giancarlo Siani, si è lasciato andare a diverse dichiarazioni.

Marco D’Amore, le sue riflessioni su “Gomorra – La serie”

Marco D’Amore ha raccontato le sensazioni che ha provato all’ultimo ciak di Gomorra: “Ci sono arrivato abbastanza preparato, perchè prima del set ci sta un lungo periodo di gestazione e di scrittura. Un abbandono graduale ma ovviamente all’ultimo ciak ho provato grandi emozioni. Ci eravamo promessi di essere forti e freddi ma non ci siamo riusciti, ha vinto la commozione“.

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Poi ha volto lo sguardo al passato e ha raccontato di come, fin dalle prime stagioni, si è approcciato al personaggio del camorrista Ciro Di Marzo e di cosa ha significato per lui interpretarlo: “Le esperienze variano a seconda di come le si vive. Sono stato educato ad osservare i personaggi come qualcosa più grande di me. Ho visto il personaggio di Ciro come una vetta inarrivabile, tipo come il K2. In tutti questi anni di performance ho cercato di raggiungerlo e pareggiarlo ma non l’ho mai sovrastato. Il fatto che lui mi abbia messo alle prese con questa scalata e avesse fatto in modo che io dessi il massimo e lo raggiungessi, mi ha concesso di alzare l’asticella della difficolta nella scalata all’interpretazione del personaggio – ha confessato – Mi ha messo alle prese con i miei limiti e mi ha scrollato di dosso tanti pregiudizi che sono, giustamente, quelle che popolano alcune biografie della nostra terra. Dietro ogni esperienza si nasconde una storia ed io senza nè giustificazioni nè pregiudizi affermo che Ciro e un uomo della mia stessa provenienza ed età che però non ha ricevuto neanche una delle possibilità che ho avuto io nella vita: possibilità di studiare, viaggiare, conoscere altri mondi e di desiderare futuri possibili”. Non ha mai temuto di restare braccato nella caratteristicità del suo personaggio: “Non ho mai percepito Ciro come una gabbia, è sempre stata un’opportunità di volare. “Gomorra” la definisco come quella che nel calcio è comunemente una cantera. Uno spazio per sperimentare e crescere professionalmente e in cui molti professionisti già grandi di età hanno ricevuto una opportunità di espressione che forse non avrebbero trovato altrove”. 

Di seguito, con leggero imbarazzo si è lasciato andare a delle riflessioni molto private che, per sua stessa ammissione, non rilascia con molta ricorrenza in pubblico: “Racconto poco di me, racchiudo i miei pensieri nelle cose che faccio. Non mi basta il mondo, non mi basta il tempo, sono sempre alla ricerca di altro. Ho bisogno di esorcizzare tante volte i malesseri della vita che mi porto dietro raccontando tante storie. In questo modo mi privo di molte cose nella vita ma non fa nulla, io sono stato educato così”. 

Ad un certo punto il lavoro si confonde con la vita e, anzi, diventa la vita. Lavorare nello spettacolo richiede sacrificio, passione e assuefazione. Questo Marco D’Amore lo ha imparato da un grande maestro: “A teatro sono stato educato da Toni Servillo, un grande artista che ha fatto coincidere il mestiere con la vita. Ho visto sacrificare tutto all’altare di questo desiderio. Questo e un mestiere che non si può fare a spizzichi e bocconi o come hobby o maturando una velleità di superficialità o vanità. Ho tolto tanto alle persone che mi amano, ho regalato soprattutto la mia assenza. Sono convinto che, nonostante il dolore che posso aver provocato, loro mi capiscano”.

I suoi nuovi progetti e l’esperienza da regista 

D’Amore ha poi ha svelato delle informazioni inedite in merito al suo nuovo progetto in cantiere in uscita per il prossimo autunno: “Mi sono cimentato nel progetto “Napoli magica”, e un film sullo stereotipo, sul luogo comune e sulla bidimensionalità della nostra terra sulla quale io ho giocato”. E per rafforzare il concetto ha fatto ricorso ad una metafora esplicativa: “Napoli è come un palcoscenico. Un palcoscenico è cavo perché funziona come una cassa armonica, chi le realizzava ad un tempo sapeva che chi sarebbe salito sopra avrebbe dovuto parlare e che quindi servivano delle cavita per prolungare la voce. Napoli è così ed ha delle zone cave e delle zone fonde. Io in questo progetto ho provato a stare sia sopra il palcoscenico sia sotto, cercando di capire cosa si celasse in profondità. Ho trovato storie che spero vi faranno incuriosire”. 

Ed in merito alla sua esperienza alla regia ha detto: “Io ringrazio chi mi ha concesso di esplorare il campo della regia. Ad oggi “L’immortale” può essere definito un successo ma agli inizi vi erano molti detrattori che mi accusavano di aver tradito la grammatica della serie – ha ammesso – Ad oggi questo film lo definisco l’esperienza più grande della mia vita”. Del resto anche “Gomorra” è stata una scommessa: “Con Gomorra abbiamo lavorato tantissimo sulla storpiatura del dialetto ed inizialmente era motivo di preoccupazione, perché era una delle prime volte che si scendeva cosi in profondità e nel realismo. Per questo e giusto che venga visto con i sottotitoli”.

“L’immortale” è stato per lui un lavoro meraviglioso quanto ostico: “La cosa più difficile da regista è stato il rapporto con me stesso come attore. Ero costretto a rivedere ciò che facevo ed ero estremamente critico. È stato bellissimo gestire le esperienze primitive di alcuni attori che non avevano alcuna esperienza cinematografica pregressa. Chiaramente questa è stata un’altra delle difficolta registiche in cui mi sono dovuto imbattere ma mi e venuto istintivo. Ho creato subito una connessione con loro e ho voluto che si esprimessero liberamente”.

Poi si è lasciato andare ad una confessione divertente del dietro alle quinte, strappando una risata a tutto il pubblico presente in arena: “Quando dovevamo inquadrare il ripescaggio di Ciro, siccome mi muovevo sia tra il ruolo di regista sia di attore, ho deciso di assumere uno stunt man. Noi eravamo su una barca di appoggio, erano le 3 di notte e faceva un freddo bestiale. Quando parti il ciak vidi uno stand che stava quasi per annegare e stava gridando disperatamente. Dei sub lo recuperarono immediatamente. Chiesi come mai fosse successo questo e con molta spontaneità mi dissero che non ce la faceva perché avevamo mangiato troppa pasta con le melanzane! Alla fine mi gettai io in mare e girai la scena in campo largo”.

Ed ha concluso il suo discorso esprimendo la sua opinione in merito all’impatto sociale della cinematografia che porta il suo nome: “Io non mi arrogo il diritto di fare sociale, perché questo ha delle tendenze pacificatrici e risolutorie – ha chiosato – Io faccio il contrario: turbo ed innesco domande e non risposte, perché questo permette allo spettatore di giungere al compimento del viaggio. Io odio gli artisti che anche a teatro salgono sul palco e dicono “è così”. Ognuno percepisce a proprio modo, sono tanti i livelli ai quali si può tendere”.

Foto di copertina tratta dai profili ufficiali del Social World Film Festival

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