Brigida Cucina Napoletana, atmosfera d’antan e cucina tradizionale partenopea

In una delle arterie più iconiche della Napoli di inizio Novecento, Brigida cucina napoletana si conferma come indirizzo imperdibile per gli amanti della buona tavola

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Articolo di , 17 Dic 2024
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Circoscritta dalle mura Aragonesi, via Santa Brigida sorge nel cuore della Napoli della Belle Epoque, a ridosso della centralissima Galleria Umberto I ma anche di Piazza Municipio, dunque crocevia di transito di fermenti culturali “alti” e insieme popolari, sineddoche della medesima natura duale del capoluogo partenopeo.

Mutuarne il nome significa dunque rispecchiarne la temperie che informa il luogo, e “Brigida – Cucina Napoletana” è un omaggio vivido ed evocativo a quegli anni, sempre presenti nel cuore della popolazione: un
locale che guarda al passato, rivisitando la tradizione con un anelito post-moderno, senza riecheggiare mode transeunti ma con piedi saldi nel rigore quasi “filologico” della gastronomia regionale.

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Brigida nasce da un’idea del patron Gianluca Amoroso – sempre presente in sala – con il socio Michele Caruso, i quali probabilmente avevano anche in mente la protagonista della canzone “a tazz e cafè” – cantata fra gli altri da Roberto Murolo – dedicata all’iconica bevanda napoletana: boiserie in legno, tovaglie quadri e seggiole d’epoca, tutto concorre in maniera sinestetica ad evocare e suggerire atmosfere d’antan e memorie tramandate dai nostri avi, opportunamente rielaborate.

Piatto forte da riscoprire, nel corposo menù, è lo “spaghetto alla gravunaro”, con mollica di pane, capperi acciughe e pinoli, maassolutamente degni di menzione sono la pasta e patate, la minestra maritata, la trippa con patate, le alici fritte ed il peperone “mbuttunat” (ripieno), senza trascurare la genovese e la lardiata.

La degustazione

Passando al menù degustazione che abbiamo assaggiato in esclusiva, si inizia dalla teoria degli appetizerpeperone ripieno, canapaccio affumicato, alici ripiene con salsa di pane, bruschetta infornata con pomodoro per piennolo”, una egregia stratificazione e progressione di gusto, a fingere da overture.

Preceduti dalla “zuppa di lenticchie di controne e castagne”, sovvengono i due primi: lo “spaghettone alla gravunaro” racconta ingredienti “poveri” – e dunque spesso ingiustamente relegati ai margini da tanti chef – mentre il raviolo in salsa di scarpariello è ormai uno standard di sapore, elegante anche nell’impiattamento.

Arriviamo all’eterodosso dessert “torta all’aglianico con crema gialla”, lievitato in cui è in evidenza la nuance aromatica data dall’impiego della riduzione del vitigno a bacca rossa maggiormente diffuso in Campania, ed infine dalla conclusione con tazzina di caffè con babà, in cui il dolce è creativamente collocato all’interno della tazzina, ad unirsi in un ideale connubio, anche formale.

Carta dei vini – di origine segnatamente regionale, zone più vocate tutte rappresentate – con ampi margini di miglioramento, interessante la selezione di distillati e amari, magari da gustare nell’ampio dehor esterno al termine del pasto, come degno epilogo.

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