Il suono antico del Vesuvio: LA NIÑA e Furèsta
Strumenti arcaici e voci in coro che cantano radicamento e ribellione: Furèsta è l’ultimo, potentissimo album di LA NIÑA, un’opera nata alle pendici del Vesuvio.

Subito dopo aver infiammato il palco del David di Donatello, la musica di LA NIÑA è arrivata in Egitto. Il suo è infatti un viaggio che parte da Napoli, dal Vesuvio, dalla Campania, dall’immaginario rurale insito in questo luogo, per farsi voce di una femminilità ancestrale.
L’album Furèsta, uscito con la primavera, è composto da dieci brani che celebrano i ritmi del tempo, i cicli della vita e il bisogno umano di ritorno all’origine, e cioè alla verità delle cose.
Concepito insieme ad Alfredo Maddaluno, Furèsta è un lavoro musicale esoterico e simbolico, in cui convivono suoni elettronici e percussioni tribali, strumenti arcaici e voci in coro che cantano radicamento e ribellione.
Furèsta: un canto di radicamento e ribellione
Il suono di Furèsta – l’ultimo album di LA NIÑA – è fuori dal tempo; anzi, il tema del tempo attraversa ogni traccia del disco, sottolineando il tempo del dolore, della cura, della lotta, e anche della rinascita.
Nel suo ultimo album, la voce di LA NIÑA è immersa in un coro di donne sorelle, che intonano ninnananne antiche e grida di battaglia. L’album ci racconta in un modo assolutamente inedito della battaglia quotidiana di affermazione e di una femminilità inquieta che non riposa mai.
Il singolo forse più rappresentativo dell’album, adottato come manifesto da chiunque difenda la propria libertà, è “Figlia d’ ‘a tempesta”, un’insurrezione radicale che batte nella Campania Felix, a colpi di tamburi intrecciati a voci di donne sincrone e ferite.
In questo singolo c’è la violenza, ci sono sogni rubati, le sorelle non tornate, mai dimenticate, e una donna che ora vuole tutto, e cioè non un granello in meno della sua libertà.
“Guapparìa” è, invece, dichiaratamente il singolo manifesto dell’album. Si struttura su una melodia popolare e su un ritornello che fa: senz’ amore nun se canta. Piedi nudi, strumenti a corda e percussione, croci alle orecchie, mentre una denuncia sociale è rivolta a chi vuole da Napoli solo tarantelle e guapparia, mentre si gira dall’atra parte di fronte alle reali sofferenze della nostra città.
Melodie oniriche, intime, cavalcate da una voce che viene da dentro, completano l’album e sono “Mammamà” (live session registrata all’Auditorium novecento ), “‘O ballo d’e ‘mpennate”, “Pica pica”, “Ahi!”, “Oinè”, “Tremm” (con Kukii), “Chiena ‘e scippe”, “Sanghe” (con Abdullah Miniawy). Il disco è così anche un mix di culture, forte delle influenze sonore ma anche culturali (tra cui Pasolini, Pascal, María Zambrano e De Simone) di LA NIÑA e si pone, perciò, in una dimensione al di là del tempo e dello spazio.
La grinta, la sensualità, l’immaginario rurale di questo disco, anzi, trovano tempo e spazio grazie alla lingua napoletana, al dialetto: perché certe cose suonano vere solo se dette così, con la lingua di Napoli, dell’area vesuviana, della nostra terra, che tiene n’arraggia ca’ nunn’ arreposa.

