Facimmece ‘a Croce: il rito di iniziazione napoletano
La sveglia è suonata troppo presto? Ci aspetta una lunga e dura giornata di lavoro e non sappiamo come metterla a nome? E facimmece 'a croce!
Avete mai sentito dire a un napoletano: “Facimmece ‘a croce”?
Probabilmente, la frase sarà stata seguita da un leggero sospiro. Nella città di Napoli questa frase è parte di un vero e proprio rito propiziatorio. Il popolo napoletano è intriso di riti magici ed esoterici. Farsi la croce, abbracciarsi la croce è uno di questi. Mica letteralmente! Solo simbolicamente.
Il nonno di Heidi è stato a Napoli e lei è in parte napoletanaFacimmece ‘a Croce, quando si usa a Napoli
È parte del rito di iniziazione per le cose, che solitamente non ci va di fare. La mattina la sveglia suona alle 6:30 del mattino. Ancora non è stata assunta l’opportuna quantità di caffeina, ci aspetta una lunga giornata di lavoro. Magari non proprio una giornata passata a ballare a Brodway.
Si fa un lungo respiro, si prende coraggio, si pronuncia la frase magica, si tira un sospiro e si comincia.
Farsi la croce significa per noi iniziare qualcosa, nella speranza che cominci bene.
Se è cominciata male, allora forse “Ce simmo fatto ‘a croce cu ‘a mana smerza”.
La croce è un simbolo sempreverde nella nostra cultura ed è utilizzata per tantissime espressioni, spesso legate alla sofferenza (giocoforza, Gesù Cristo non deve essersi divertito troppo dopo la condanna dei Romani).
“E vabbuò, abbracciammece ‘a croce” è l’espressione perfetta della infinita pazienza dei napoletani. In questa sede tocca ricordarlo e sottolinearlo. Non saremo il popolo più industrioso, produttivo ed efficiente al mondo, rispetto magari ai nostri compagni tedeschi. Non saremo il popolo più raffinato, elegante e delicato come (forse) reclamano di essere gli amici francesi. Ancora, non saremo il popolo più preciso e puntuale, come gli amici svizzeri e gli inglesi.
Ma la dote della pazienza, della tolleranza e di prendersi le cose così come vengono è un’arte pura della città di Napoli, a volte persino troppo forte. Non è un caso che abbiamo avuto così tante dominazioni. Ci siamo saputi prendere il buono (quando c’era) e abbiamo sopportato con estrema pazienza anche alle parentesi oscure. Abbiamo saputo abbracciarci la croce, dunque.
Allora, se Edmond Rostand nel suo Cyrano De Bergerac fa dire a Rossana: “Ognuno di noi ha la sua ferita: io ho la mia. Qui, sempre viva, quest’antica ferita”, il napoletano taglierà corto con “Ognuno tene ‘a croce soja” per indicare che a ognuno tocca il suo fardello da trasportare, il suo carico di lutti, dolori, paure. E l’espressione spesso nasconde un piccolo sotto significato di dolori nascosti. “Ognuno tene ‘a croce sua” significa soprattutto ognuno ha i suoi dolori che non dice a chiunque.
Torturare qualcuno, nel senso soprattutto di dargli fastidio, rendergli la vita impossibile, si tradurrà con “’o stai mettenno ‘ncroce a chillu pover’ommo”.
Da qui un doppio corollario: se non potrà reagire starà “Comme a Cristo ‘ncroce”. Se reagirà, invece, farà “Croce nera” e potrebbe tagliare i rapporti con la persona che lo sta ingiustamente arrecando fastidio.
Quando le cose si fanno difficili, quando sembra impossibile cominciarle perché non si sa neanche da dove iniziare, prendete fiato e abbracciate i riti magici napoletani. Dopo un paio di respiri pronunciate la formula magica: “E facimmece ‘a croce”. Buttate fuori l’aria.
Avete appena meditato alla napoletana, questo è il nostro mindfulness.